Tratto da un sermone di Teodorico Pietrocola Rossetti rievocato da Giovanni Luzzi, in La Chiesa Cristiana e delle varie denominazioni ecclesiastiche nel campo evangelico (1948), pp. 14-15. 

    Al rito della Santa Cena, col quale noi coroniamo ogni Domenica il nostro culto consueto Gesù conferì un carattere eminentemente simbolico e profondamente spirituale. Ogni singolo atto che costituisce il rito, ha il suo valore simbolico e spirituale: valore, che il Maestro ha scultoriamente dichiarato nel discorso ch'egli tenne sulla riva orientale del Mar di Galilea [...] E' bene che noi ricordiamo con gran cura e viva attenzione il valore simbolico, spirituale, di quei Singoli atti, e le dichiarazioni illustrative del Maestro in quel discorso del Vangelo gioannico, per evitare il pericolo di trasformare un rito così sacro in una misera cerimonia di forma e di abitudine. 

    Il rito che tutte le domeniche noi celebriamo qui assieme, è il rito del nuovo Patto, ha detto Gesù (Luca 22.20; 1a Cor. 11.25). Il Patto a cui alludeva Gesù, è quello stabilito fra Dio e l'uomo. Dio offre in dono la salvazione per mezzo di Cristo; l'uomo accetta e si appropria questo dono mediante la fede. Il Patto antico fu stabilito mediante sangue di animali (Esodo 24.5-8; Ebr. 9.19-20); il Patto nuovo è stabilito mediante il sangue sparso da Gesù sulla croce. Il pane, nel rito, simboleggia Cristo. "Io", dice Gesù, "sono il pane della vita" (Giov. 6.48). Il vino rappresenta il "sangue" sparso da Gesù sul Golgota; e il sangue, così rappresentato, è il sangue del nuovo Patto, il quale a differenza del Patto antico, è Patto di grazia, d'amore, di perdono, di riconciliazione, di pace: il Patto, che Gesù ha firmato col col proprio sangue in nome di Dio. 
    Lo spezzare il pane ricorda la vita del Salvatore troncata, spezzata sul legno della croce. Il pane ed il vino, offerti individualmente dicono che la redenzione compiuta da Gesù è virtualmente "edenzione del mondo", ma non diviene effettiva che in quelli i quali se l'appropriano individualmente mediante il ravvedimento e la fede. Il magiare ed il bere esprimono la vera natura della fede, la quale non è un atto soltanto della intelligenza, ma sopra tutto un atto assimilatore della coscienza e del cuore. Sulla riva del Mar di Galilea, Gesù diceva alla folla, nel forte linguaggio adatto alla mentalità di quella gente rozza: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha vita eterna" (Giov. 6.54). E nello stesso discorso le diceva: "In verità io vi dico: Chi crede ha vita eterna" (Giov. 6.47). 
    Gesù non promette la vita eterna e due cose differenti; ma nel suo discorso l'una cosa era spiegazione dell'altra. La fede per cui si giunge al possesso della vita eterna, volle significare Gesù, è un "mangiare la sua carne n ed un bere il suo sangue; e, vale a dire, non un atto della mente soltanto, ma sopra tutto, un atto mistico di assimilazione della coscienza e del cuore. 

    Il bere tutti dal calice simbolico (Matt. 26.27; Marco 14.23) adombra quella "comunione fraterna, che gli apostoli seppero discernervi così distintamente (1a Cor. 10.17). Il nuovo rito, a mente di Gesù, doveva servire di ricordanza. Tutte le volte che i discepoli avrebbero mangiato assieme il pane e bevuto assieme il vino della Eucaristia, il Maestro sarebbe rivissuto nella loro mente e nel loro cuore; e quel che il pane ed il vino sono per la vita fisica, lo Spirito suo sarebbe stato per lo spirito loro. Tale la promessa del Maestro, tale la parola di conforto della quale i discepoli avevano appunto bisogno nell'ora grave, angosciosa in cui si trovavano, della terrena separazione da lui. Questa la Eucaristia, come Gesù la istituì e la intese.


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